Dietro il sequestro Farouk

[Sintesi del mio reportage su “Panorama”, 1992]

Il  mio primo rapporto con Mesina dunque e’ stato clandestino. Un non-incontro. Mi era gia’ capitato altre due volte. La prima, l’anno precedente, durante il sequestro Scanu. Dovevo fare un reportage sul banditisimo sardo e Mario Zappadu, che conobbi in quell’occasione, mi porto’ a Orgosolo, la capitale del silenzio, il regno dell’omerta’. Riuscii in un’impresa non facile: entrare a casa Mesina. Trovai la sorella Peppa, sempre piena di premure con tutti, e la madre di Graziano, che a 97 anni tutti chiamano ancora “zia” Caterina. La sorella mi annuncio’ in anteprima che era stata chiesta la grazia per il fratello. Con la vecchia madre realizzai un’intervista bellissima. Lei comincio’: “Il mio Grazianeddu? E’ sempre stato un bravo ragazzo, il piu’ bravo di tutti”.  Emozionante “zia” Caterina: cosi’ nera, cosi’ sarda, cosi’ tenera, davanti al fuoco del camino, con tutto il peso di una grande e antica cultura. Due occhi accesi che facevano concorrenza alle fiamme: bellissima, a dispetto dei quasi cent’anni. Un miracolo.

La seconda volta, avevo un collegamento in diretta dall’interno del supercarcere di Novara. In qualche cella alle mie spalle e’ rinchiuso Mesina e naturalmente cerco di contattarlo. Diniego assoluto. Vengono ospiti invece in diretta due detenuti. Arrivano, tranquilli, con in mano un documento sulle condizioni carcerarie. Duro, durissimo. Gli dico: non si può, troppo duro. Replicano, con sicurezza: “Aspetta, torniamo subito”. Una delle guardie mi spiega”: “Vanno da Mesina. E’ lui che comanda qui dentro”..

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Facciamo un giro per Pratobello per vedere dove andranno i soldati, ci abbuffiamo di porceddu ai “Monti del Gennargentu”, poi scendiamo a Orgosolo. Quando Antonello bussa a casa Mesina esce proprio Graziano. Ci vede e si allarma. Fra sardi basta uno sguardo: amici. Superiamo l’esame: “Entrate a prendere un caffe'”. Rivediamo la signora Peppa, il marito, tanti altri parenti, tutta la famiglia Mesina. Non c’e’ neppure il tempo di scambiare qualche frase compiuta perche’ c’e’ la sfilata degli auguri. Graziano ci chiede scusa, e’ ora di andare a prendere la sposa. Il matrimonio si celebra a Galanoli, nella chiesa di don Luigino Monni, il prete che recupero’ la busta con la cartilagine di Farouk: la recupero’ al bivio per Dorgali, non lontano da dove poi e’ stato rilasciato il bambino. Le nozze sono celebrate da don Sebastiano Sanguinetti, parroco di Orgosolo e cugino del sindaco. Due preti e un posto che ricorrono, piu’ volte, in questa storia. In Sardegna niente avviene per caso.

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A questo punto bisogna dire perche’: cioe’ perche’ Mesina lo ha fatto. “Perche’ una persona a cui voglio molto bene me lo ha chiesto”. Per pudore non lo ammette ma la persona e’ la famosa “zia Caterina”, ossia la vecchia madre. Quando Marion Kassam ando’ a Orgosolo, disse: “Questa donna ha gia’ sofferto troppo. Non deve soffrire piu'”. Poi c’e’ l’amore di Graziano per i bambini. Ce lo racconta il giorno dopo, mercoledi’ 8, il giorno veramente decisivo nella storia della liberazione di Farouk.

Alle due del pomeriggio, Graziano Mesina sparisce. Non tira un filo d’aria e si scoppia di caldo. Siamo gia’ a casa sua e ci lascia li’ con la sorella e il cognato (la madre ora vive nella casa di un altro figlio). Quando torna, un certo tempo dopo, e’ un po’ scosso. Non ce lo dira’ mai ma veniamo a sapere che quel giorno si e’ preso a pugni con i banditi. Forse qualcuno gli ha urlato in faccia di non fidarsi, forse hanno discusso sulle garanzie, certo e’ che sono venuti alle mani.

Graziano si siede con noi. Le mani. All’anulare sinistro ha un anello enorme, dannatamente kitsch. Un po’ per curiosita’, un po’ per spezzare l’aria pesante, gli chiedo dell’anello. “Costa un sacco di soldi -spiega- uno  vedi e’ un cobra. Gli occhi sono di rubino”. Poi apre l’inseparabile borsello, tira fuori altri due anelli: uno ha la forma di una pantera, l’altro di Cleopatra. Non mi piacciono molto, ma dico compiacente: splendidi. Sorride: “Quando Farouk sara’ libero li regalero’ ai Kassam. Il cobra al padre, Cleopatra naturalmente alla madre e la pantera a Farouk”. Hanno gia’ scritto che questi tre anelli sono serviti a Graziano per riconoscere i rapitori, nonostante il cappuccio, perche’ li ha usati come sigilli. In realta’ Graziano ha usato un solo anello, il cobra.

Dopo gli anelli, ha parlato dei bambini. Trent’anni di carcere, di cui “sedici nei sotterranei”, cioe’ in isolamento, mancanza d’amore, la voglia di figli, di una famiglia. Parole dette con gli occhi. Graziano si scioglie. Parla finalmente anche con la bocca. Si fida di noi. E di cose ne racconta tante: delle evasioni soprattutto. Scrivo a memoria perche’ con lui guai ad usare taccuini: ogni intervista gli ricorda un interrogatorio e poi i giornalisti, dice, sono piu’ curiosi dei poliziotti. “Sai perche’ sono diventato il re delle evasioni? Per colpa dello Stato. Io non ho studiato e in carcere volevo studiare. Mi hanno detto: tu sei troppo intelligente, se studi diventi pericoloso. Per non impazzire cominciai a passare le ore e i giorni e gli anni studiando il modo di uscire”.

I bambini. Marcellino Petretto ha piu’ di trent’anni ma ancora lo chiamano Marcellino. In quei giorni ha ricordato a un collega che Mesina lo rapi’ quando aveva piu’ o meno l’eta’ di Farouk. “Mi lascio’ dopo cinque ore con mille lire, per le caramelle”. Stuzzichiamo Graziano e per la prima volta svela che di quei 65 milioni per l’intervista famosa in latitanza concessa alla “Domenica del Corriere” non prese una lira perche’ la somma era destinata a un bambino poliomelitico.

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Passiamo le tre ore a spasso per Orgosolo. Graziano esce con noi. La gente del posto lo circonda, i turisti gli chiedono autografi. Graziano ci ride su: “Mi dovrebbero fare sindaco. Tutta questa gente sta qui per me, perche’ Orgosolo e’ il paese del bandito Mesina”.

Alle 19,30 Graziano fa un cenno ad Antonello: e’ ora di richiamare. Torniamo in casa. Stavolta la comunicazione dura tre minuti in tutto. Graziano attacca, e’ rosso in viso. “Niente cena, ragazzi. Aspettatemi qui, avrete una sorpresa. Anzi, no qui, andate in un posto qualsiasi di Orgosolo. Vi chiamo io, quando e’ ora”. Antonello e’ disperato: ha le batterie del telefonino scariche. Allora Graziano chiede il mio numero. E scappa.

Facciamo un po’ di giri per Orgosolo. Alla fine ci fermiamo. Siamo su una Thema metallizzata, targata Roma. Rimpiangiamo di avere un’auto troppo vistosa. Cerchiamo di nasconderci nel buio, in piazza. All’improvviso sono attraversato da un lampo di terrore: oddio, forse gli ho dato lo “0337” come prefisso e invece questo e’ un cellulare della nuova serie e ha lo “0336”. Comincio a tremare. Scendo a fare la pipi’ almeno dieci volte in un’ora. Mi calmo un po’ quando penso che Graziano ha anche il numero di Antonello e un barlume di batteria ancora c’e’. Aspettiamo. E controlliamo le auto che passano. Almeno quattro ci controllano, passano troppe volte. Altre ci fanno il carosello intorno ma sono solo cretini che cercano di movimentare la serata. Sapremo due giorni dopo che i cretini volevano mandarci una scarica, insomma spararci: mica per uccidere, solo per spaventare, e ridere. Li ha frenati il nostro rapporto con Mesina, noto ormai a tutto il paese. E alla polizia.

Ogni squillo e’ un salto. Ma, niente non e’ Graziano. Sappiamo che deve firmare a mezzanotte dai carabinieri. A mezzanotte e un quarto metto in moto e vado a casa sua. Ci aspetta in finestra. Mi insulta perche’ il telefonino era sempre “occupato”. Dannazione, avevo davvero sbagliato prefisso.Mesina e’ rosso in viso, alterato.

– Comunque: che e’ successo?

“Niente -dice Mesina- proprio niente. E’ saltato tutto”.

– Perche?

“Erano d’accordo sul miliardo. Invece all’ultimo hanno preteso di piu’. Non posso dirti di piu’. Peccato. Ci riproveremo”.

Ho l’impressione netta che non ci dica tutta la verita’. Non si sono fidati di lui? O qualcun altro si e’ inserito? Forse un avvocato.

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Andiamo a cena, tanto c’e’ il tempo. Antonello non stacca lo sguardo dal telefonino. L’accordo e’ che stasera Graziano chiamera’ lui. Le telefonate saranno quattro. La prima arriva alle 22,45. La terza e’ quella decisiva. Mesina annuncia che Farouk e’ libero ma ci chiede di aspettare un quarto d’ora prima di dare la notizia. Mentre Antonello avverte – mi dice – un magistrato, scendo come un folle con l’auto giu’ per i tornanti che dallo Spinnaker portano in albergo. Scendiamo come forsennati. Ugo ci fa: “calma, ci sono i colleghi”. Entriamo nella hall …fischiettando. Poi, appena girata la curva della piscina di corsa verso la stanza di Speranza. E’ l’unica che ha il televisore.

Claudio ha ancora la chiave sulla porta quando Mesina chiama di nuovo. “Tranquilli, il bambino e’ al sicuro. Libero. E’ rasato e l’orecchio e’ quello sinistro”.

–              Ma che vuol dire libero?

“Libero, rilasciato. E’ in mani sicure, non e’ piu’ in quelle dei banditi e adesso stara’ gia’ in mano alla polizia”.

Finalmente chiamo la redazione, poi lo studio. C’e’ Fabrizio Del Noce. Sono le 23,05. Dico “Farouk e’ libero” e da quel momento in poi non tremo piu’.

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Rivedo Mesina il giorno dopo, domenica, a Olbia. Gli scade il permesso e deve ripartire. Pranziamo insieme a casa Zappadu. Non mi racconta granche’. Forse era con due uomini di fiducia, forse con uno, forse con nessuno, chi puo’ dirlo. Quei due uomini di fiducia erano preti: chi puo’ dirlo e chi puo’ negarlo? Certo quando Graziano mi ha detto “e’ libero, e’ al sicuro, i banditi sono lontani, adesso stara’ nelle mani della polizia” era certissimo. Prima di partire mi fa: “Se ti chiama il giudice, di’ pure che ti ho raccontato tutto io. Poi chiamera’ me e gli spieghero'”.

L’arrivo era stato clandestino. Per la partenza di Grazianeddu all’aeroporto c’e’ la grancassa

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I maestri del giornalismo: sono loro che mi hanno “salvato” nel momento piu’ intricato, quello delle polemiche, a cominciare da Indro Montanelli che ha incondizionatamente sposato la mia tesi. Ringrazio naturalmente soprattutto Graziano Mesina che mi ha dato la notizia. Mi hanno chiesto tutti perche’ mi sono fidato di lui. L’ho detto allora, a caldo, e lo ripeto dopo anni e una cognizione piu’ ampia della vicenda. Perche’ in un rapporto che si e’ consolidato nell’arco di dieci giorni ho avuto le prove che lui fosse al centro delle trattative o che comunque aveva un ruolo importante. Non credo, onestamente, di aver sbagliato. Non l’ho pensato allora, non lo penso soprattutto adesso.

Un ribelle, ma un solo fatto di sangue

[scritto più o meno intorno al 1992]

Lo chiamano ancora “Grazianeddu” anche se ha quasi sessant’anni. Piu’ della meta’ li ha passati in prigione: esattamente ventisette anni, sette mesi e sette giorni. Gran parte in isolamento. Una vita dietro le sbarre intervallata da molte evasioni: la prima quando aveva diciotto anni, l’ultima nell’85, una fuga d’amore. Condannato all’ergastolo nel ’72 per un delitto cosidetto d’onore (vendico’ la morte del fratello), deve la sua fama piu’ alle lunghe e ripetute latitanze che a responsabilita’ dirette nei sequestri di persona. E poi per quell’aria da Robin Hood. Una volta mi ha spiegato perche’ e’ diventato bandito: “Per il modo in cui le leggi sono gestite. Davanti all’ingiustizia sono sempre pronto a ribellarmi. Come sono pronto a non ribellarmi davanti alla giustizia”.

Venti evasioni tentate, nove riuscite. Un ribelle. La prima da giovanissimo, quando aveva sedici anni e fu arrestato per porto abusivo di armi. “Amici miei partivano per la visita di leva. Festeggiavamo. Qualcuno sparo’ in aria. Arrivarono i carabinieri che bloccarono tutte le stradine intorno al paese. Volevo spegnere la luce del lampione per rifugiarmi al buio. Chiesi la pistola e sparai. Mi videro, mi portarono in caserma, in cella. La mattina dopo chiesi di andare al bagno. Avevo gli scarponi. Tirai tre calcioni alla porta. Scappai. Mi rifugiai in montagna. Senza saperlo avevo cominciato la carriera del latitante, a sedici anni”.

La seconda fuga tre anni dopo lanciandosi da un treno in corsa durante un trasferimento. Lo ripresero subito ma nello stesso anno riusci’ a evadere un’altra volta, restando nascosto per due giorni e due notti in un grosso tubo del cortile di un ospedale. La fuga successiva fu la piu’ spettacolare. Dopo essersi arrampicato sul muro di cinta del carcere alto sette metri si lascio’ cadere con un salto acrobatico in una delle strade piu’ frequentate della citta’. Ripreso anche stavolta, qualche anno di “tranquillita” e poi ancora una fuga da un carcere di massima sicurezza. Quasi una sfida al direttore al quale la annuncio’ il giorno prima.

“Anche un’altra volta ero riuscito a fuggire – racconta spesso Graziano -. Avevo gia’ segato le sbarre quando chiamai l’agente di custodia. Ci sarebbe andato di mezzo lui, era un brav’uomo. Dai l’allarme, gli dissi. Quello mi guardava stralunato. Dai l’allarme, e gli tirai addosso la finestra gia’ segata”.

Graziano odia i taccuini e ama pavoneggiarsi, e’ il senso della sua vita nata sbagliata. “Quando arrivavo in un carcere – racconta ai pochissimi amici – andavo subito dai piu’ svegli. Ditemi come si fa ad uscire da qui. No, non subito, fra qualche giorno. Quando tornavano glielo spiegavo”.

Graziano racconta anche altre cose, probabilmente vere. Di quando aveva sequestrato un imprenditore della calzatura (Botticelli?) e durante il sequestro, camuffato con una barba finta, giocava a briscola col maresciallo dei carabinieri, in un paesino marchigiano. E di quando gli arrestarono la sorella e lui – latitante, ricercato in tutt’Italia – riusci’ ad entrare, nonostante la scorta, in casa del questore a Milano e gli lascio’ sul letto un biglietto di minacce. Forse non e’ vera. Sicuramente secondo me e’ inventata un’altra storia che racconta spesso: la cena con un noto attore (Michele Placido?) in piazza di Spagna mentre era recluso a Roma. Dice di essere uscito da Regina Coeli attraverso le fognature. Ma a forza di raccontarla lui crede pure a questa. “Se mi facevano studiare… quanti anni persi”, e’ il suo unico rimpianto. Lo ripete sempre.

Un giorno gli dico per provocarlo: “Tua madre pensa che sei un bravo ragazzo”. Lui risponde seriamente, senza sorrisi”:

“Mia madre non mi ha mai conosciuto a fondo. Forse perche’ nell’eta’ in cui si parla alla madre io non c’ero. Ha sempre stentato a credere chequello di cui parlavano i giornali ero io. Perche’ sono diventato quello che sono? Perche’ nessuno puo’ decidere del proprio destino. Certo so perche’ scoppia la rabbia. Andare avanti e indietro da un bar all’altro, emarginati, disoccupati, senza obiettivi. Si vive allo stato brado”.

 Mi chiedono spesso dov’e’ adesso Graziano Mesina. E’ tornato in galera. Non l’ho piu’ rivisto, ne’ sentito  anche se talvolta ho avuto voglia d’incontrarlo. Per capire. Ho sperato di rivederlo ai vari processi ma non si e’ mai presentato. Ha fatto sapere agli amici: “Che senso ha parlare? Mi hanno incastrato”.

Mesina e’ tornato in galera l’anno dopo quel saluto all’aeroporto di Olbia. Un arresto improvviso e imprevisto, il 29 luglio del ‘93. Era in liberta’ condizionale dal 18 ottobre 1991, quando il tribunale di sorveglianza di Torino gli aveva concesso il beneficio della “liberta’ condizionale” per un periodo di cinque anni. Poi la storia burrascosa di Farouk e l’arresto (inaspettato) per le armi. Una vita comunque in primo piano, da raccontare.

Una vita da “balente”

La “carriera” di bandito di Mesina comincia presto. Colpa forse di un’infanzia e un’adolescenza difficilissime. Il padre, Pasquale, ha un pezzo di terra e qualche gregge, sta sempre fuori, in montagna, come tutti i pastori. E’ dunque la madre, Caterina Pinna, che pensa quasi da sola all’educazione di otto figli: sei maschi e due femmine. Graziano, il piu’ piccolo, gia’ e’ un miracolo che frequenta le elementari, oltre a fare anche lui il pastore, come tutti in famiglia. Ha solo dodici anni quando muore il padre, un lutto che lo porta ad affezionarsi maggiormente ai fratelli e in particolare a Giovanni Nicolo’. La vita del Supramonte lo fanno forte e spericolato: il caratteristico “balente”. Di lui a Orgosolo si racconta ancora un aneddoto: a sedici anni, troppo “pizzinnu” (piccolo), secondo i fratelli maggiori, non doveva fumare. Cercava pero’ di procurarsi sigarette a tutti i costi. Un giorno fa una scommessa con un pastore: “Se mi dai da fumare salto da una roccia all’altra”. Affare fatto. Graziano salta e conquista la sigaretta. L’altro resta sorpreso: se Grazianeddu avesse sbagliato di pochi centimetri sarebbe precipitato in uno strapiombo di ottanta metri.

Era cosi’ indipendente e insofferente a qualsiasi disciplina, che a sedici anni ha le prime noie con la giustizia, come ho gia’ raccontato. Si mette male. I fratelli cercano di evitargli guai maggiori e lo inviano in continente. Viene pero’ ancora arrestato per detenzione di armi. Rinchiuso a Spoleto riesce a fuggire iniziando cosi’ la lunga serie di evasioni.

Rientra in Sardegna nel 1960, l’anno che gli segna definitivamente la vita. A luglio viene sequestrato il commerciante nuorese Pietrino Crasta poi ucciso a colpi di pietra. Il corpo e’ ritrovato qualche giorno dopo nelle vicinanze di “Monte Lenardeddu” dove i fratelli Mesina hanno l’ovile. Vengono arrestati Pietro, Nicolo’ e Giovanni Nicolo’ quali presunti autori del sequestro insieme ad altri pastori della zona. Dopo due anni di carcere sono assolti per insufficienza di prove. Nel dicembre del 1961 mentre era in corso l’istruttoria, il pastore Luigi Mereu, zio di Francesco, uno degli imputati, dice in giro di essere in possesso di gravi prove contro i fratelli Mesina. Alla vigilia di Natale, Grazianeddu ferisce gravemente Mereu con due colpi di pistola. Un paio di giorni dopo, fermato in un bar di Orgosolo, il giovane Mesina si ribella agli agenti e viene arrestato. Per il tentato omicidio e’ condannato a sedici anni di reclusione.

Graziano si sente un animale in gabbia: non accetta la galera. Nel maggio del 62 evade dalla stazione di Macomer durante un trasferimento a Sassari. Si getta dal treno in corsa ma viene ripreso dopo un breve inseguimento. Quattro mesi piu’ tardi  fugge dall’ospedale di Nuoro ,dove era ricoverato, scivolando dal quarto piano lungo la grondaia. Per evitare la cattura rimane nascosto per due giorni e due notti in un grosso tubo delle fognature nel cortile dell’ospedale.

Il primo  novembre dell’anno dopo nelle campagne di Orgosolo viene ucciso Giovanni Nicolo’,  il fratello prediletto di Graziano, insieme a un altro giovane del paese, Raimondo Mattu. Il duplice omicidio arriva due giorni dopo l’assassinio dei coniugi inglesi Edmond e Vera Townley. Si parla di regolamento di conti tra bande rivali che si addossano a vicenda le responsabilita’ del sequestro e dell’uccisione di Pietrino Crasta. Passano tredici giorni : Graziano Mesina irrompe, armato di mitra, nel bar “Supramonte” di Orgosolo e uccide Giovanni Andrea Muscau. Un errore. L’obiettivo di Grazianeddu era infatti il fratello della vittima, Giuseppe Muscau noto come “grussotto” che, a suo giudizio, aveva delle responsabilita’ nell’uccisione di Giovanni Nicolo’.  Nuovo arresto per Mesina e una condanna a ventisei anni per omicidio.

L’11 settembre del ’66, dopo due tentativi andati a vuoto, riesce a evadere in modo rocambolesco dal carcere “San Sebastiano” di Sassari. Domenica pomeriggio: seguito dall’ex legionario spagnolo Miguel Alberto Atienza, si arrampica sul muro di cinta alto sette metri lanciandosi nella sottostante via Cavour. Sta nove mesi in latitanza con lo spagnolo, fino al giugno del ’67 quando sono scoperti dalla polizia. Nel conflitto a fuoco restano uccisi due giovani “baschi blu” e Atienza e’ ferito mortalmente. Mesina riesce a trascinare via il corpo dell’amico. Dieci giorni dopo fa ritrovare il cadavere in montagna avvolto in un sacco e legato con fil di ferro. Graziano resta alla macchia fino al 26 marzo del 1968 quando e’ catturato da una pattuglia della polizia stradale lungo la statale per Orgosolo. Ancora una evasione nell’agosto del ’76 dal carcere di Lecce. La nuova latitanza dura  quasi un anno. Catturato il 16 marzo del 1977 vicino  Trento, finisce nel penitenziario di Porto Azzurro dove improvvisamente decide di cambiare atteggiamento. Nessun tentativo di fuga, nessun atteggiamento da ribelle, nessuna noia. Diventa quasi un detenuto modello. Si e’ messo in testa infatti di ottenere il riesame della sua vicenda processuale.

Resiste fino all’aprile dell’85. Il giorno dodici non rientra in carcere da una giornata di permesso. Una settimana dopo e’ rintracciato in un appartamento di Vigevano in compagnia della fidanzata, Valeria Fuse’ (“volevo festeggiare con lei il mio compleanno” si giustifica con gli agenti: il 4 aveva compiuto quarantatre’ anni). Una fuga d’amore, dunque, che pone definitivamente fine alla vita rocambolesca dell’ex primula rossa. “Meglio cosi’, finalmente Graziano e’ cresciuto”  il commento dei familiari e degli amici sardi.

Graziano, dopo Valeria, ha avuto altre storie d’amore. Soprattutto tante ammiratrici. Ancora oggi donne di tutt’Europa gli scrivono lettere appassionate. Sentimenti virtuali, per spezzare il destino di carcerato a vita.

L’ultimo arresto

Asti, 29 luglio 1993,  poco prima  di messogiorno. I carabinieri fanno irruzione nella casa dell’imprenditore sardo Michele Quai  e arrestano Graziano Mesina, insieme a due giovani liguri con mitra, pistole e altre armi.

Da un paio d’anni Mesina era in liberta’ vigilata. Impiegato come magazziniere a San Marzanotto nella dita di Quai, era comunque riuscito a mettersi nei guai. Non poteva allontanarsi dal Piemonte e invece il 24 settembre del ’92 e’ preso dai carabinieri a Parma. Non solo senza permesso ma in possesso di fotografie ritenute compromettenti, fornitegli pare da un compagno di cella. Foto di un funzionario amministrativo di Modena inquisito per truffa: il tentativo di un ricatto? Oppure Mesina era a Parma per la Silocchi? O forse era stato contattato per risolvere il sequestro della Furlanetto (aiuto pero’ negato dopo la sarabanda di Farouk)? Alla fine, la sua era stata presa per una scappatella, riuscendo a conservare i benefici. Salvo per un pelo. Poi quell’arresto per le armi.

Gli inquirenti non hanno dubbi. L’operazione che ha portato all’arresto di “Grazianeddu” era avviata da tempo e “dimostrerebbe la ripresa dell’attivita’ criminosa del Mesina“, com’e’ scritto nel verbale. Eppure l’ex “re del Supramonte” da tempo viveva nella paura di essere “incastrato”, come aveva confidato negli ultimi tempi a Corrado Testa, direttore del “Gazzettino di Asti: “Da mesi vivo  nella paura. Sento che mi vogliono incastrare. So di dare fastidio quando parlo della liberazione di Farouk. Io so che qualcuno si e’ imbestialito quando al comitato parlamentare per i servizi segreti ho dichiarato che sono dovuto intervenire io per non mettere a repentaglio la vita del piccolo. Tutte le notti adesso i poliziotti perquisiscono la mia casa, sono sotto sorveglianza strettissima, come non avveniva da anni. Mi viene da piangere, spesso. Sono convinto che non rivedro’ piu’ mamma Immacolata. E poi voglio lavoro, tutto il giorno giro qui per Asti senza una meta, non ho niente da fare. Pensare che ci sono i miei fratelli a Orgosolo che hanno una pasticceria. Il mio sogno? E’ quello di finire la mia vita a fare il fornaio”.

Ad Asti Mesina era ormai praticamente disoccupato: con l’azienda Quai in crisi, Mesina passava effettivamente le giornate girovagando per la citta’, quasi sempre solo. Nelle sue passeggiate per Asti spesso si fermava alla gioielleria Costacurta. Secondo indiscrezioni sarebbe stata di fatto sua, registrata con il nome di una parente. Il negozio e’ stato perquisito, ma Corrado Passorino e Patrizia Poli affermano di essere i regolari titolari.

Certo la notizia dell’arresto ha lasciato di stucco tutti i suoi amici sardi. Possibile che Graziano si sia compromesso alla vigilia dell’esame per la sua domanda di grazia? Sperava in un po’ di riconoscenza per l’intervento a favore di Farouk.

L’avvocatessa Gabriella Banda, legale di Mesina, e a lui –sembra- legata sentimentalmente non gli ha potuto parlare. “L’ho soltanto visto seduto in cella, aveva gli occhi iniettati di sangue – racconta – la rabbia traspariva da ogni poro. Quando ho saputo la notizia sono cascata dalle nuvole. E’ incredibile, aspettavamo i giorni che ci dividevano dal 5 agosto convinti che sarebbe arrivata la liberta”‘.

Ai primi di luglio infatti, l’avvocato aveva chiesto la grazia al presidente Scalfaro. Mesina e’ persona nota, suo malgrado alle cronache sociali – era scritto nella lettera -. Il signor Presidente conoscera’ dunque il travaglio dell’uomo e sara’ informato della concreta volonta’ di ben operare per quanto a lui possibile”.

Non conosco la verita’,  perche’ l’ultima volta l’ho visto anni prima. Ma ricordo bene quel pranzo a casa Zappadu, prima della partenza dalla Sardegna. Una cosa mi ripeteva spesso, quasi un’ossessione. “Io non sono mai stato un bravo ragazzo, lo so, ma nella mia vita burrascosa, da bandito come dite voi, ho avuto una sola condanna per omicidio, una sola: quando vendicai l’assassinio di mio fratello, nel 1961. Ero un ragazzino e per quel delitto ho passato la mia vita in galera, trent’anni pensa, la meta’ in isolamento, come un cane. Non ho ancora pagato?”.

 Di Graziano conservo in eredita’ un famoso detto della Barbagia: “Nega ferru ferru”. Nega anche che il ferro sia ferro.

 

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“Non veste da inviato”, prefazione di Enrico Deaglio

Da “La Torre di Babele” (Halley editore)

Come milioni di italiani conosco Pino Scaccia da moltissimi anni. Mi compare davanti la sera mentre mangio un boccone. In genere è in camicia, oppure con un giubbotto. Parla davanti a un microfono e sullo sfondo c’è del fumo, oppure delle ambulanze, oppure delle macerie. Dice quello che è successo; aggiorna le notizie, fa parlare delle persone sconosciute.
Pino Scaccia, insomma, è l’inviato della Rai. Però non è di quelli che se la tirano. È asciutto. Racconta da ogni angolo del mondo; non fa tante considerazioni. Non si veste da inviato.
Un giorno l’ho incontrato da vicino, al G8 di Genova. Eravamo un gruppo di giornalisti e c’erano alcuni poliziotti molto agitati e aggressivi che ci dicevano che non potevamo stare lì, perché loro non volevano testimoni mentre menavano. Pino Scaccia li prese di petto e gli fece in un minuto una lezione su che cos’è la libertà di stampa. Glielo disse in termini molto semplici e secchi. Il capo fece i suoi conti e disse ai sottoposti di ritirarsi. Io pensai: che bravo, Pino Scaccia.
Il 21 agosto del 2004 e nei giorni successivi l’ho sentito molte volte. Era a Baghdad, era stato uno degli ultimi testimoni del viaggio di Enzo Baldoni (pubblicitario, viaggiatore, blogger, scrittore, che girava l’Iraq con l’unico appoggio di un accredito di Diario scritto su un foglio di carta intestata). Ci raccontò la verità dettagliata su quanto era successo. Era una verità semplice e molto bella, un convoglio umanitario della Croce Rossa Italiana, attaccato all’andata e al ritorno sulla via di Najaf, allora occupata dagli uomini di Al Sadr e assediata dalle truppe americane. Ma era anche una verità che da Roma si ostinavano a negare. Ora leggo nel libro che tra Enzo e Pino c’era la stima reciproca e l’amicizia, tutte e due nate in pochi giorni, e ringrazio Pino per avere dedicato il libro a Enzo.
Si va nei posti perché l’azienda ti manda. Si va nei Balcani, nel Kuwait, nella Russia della mafia, a Chernobyl, in Bolivia parlando del Che, nella Colombia della cocaina; si va nell’Africa che sprofonda, nell’Albania che corrre sui gommoni, si passa il Capodanno con lo tsunami. Si vedono tanti posti, si sentono tante lingue, si fatica, si ha molta voglia di tornare a casa. Poi si riparte. Un giorno, mi ricordo, mentre parlavo a Pino Scaccia in Iraq, mi disse: “Enrì, te lo dico proprio sincero. Mi mandassero mille volte in Afghanistan, ci andrei sempre volentieri.  Incontri della gente e gli vuoi bene. Ma qui in Iraq è diverso. Non mi piace, non mi piace…”.

La Torre di Babele (il titolo di questo libro) non è una metafora. È un posto che esiste veramente, a Samarra, a nord di Baghdad. È uno dei più affascinanti monumenti della storia. Dicono che lì ci sia stata la “confusione delle lingue”, una sorta di ammonimento divino a non parlare troppo, a non raccontare troppo. Pino Scaccia racconta che viene il fiatone a salirci in cima e che il monumento è stato oggetto di attacchi, dell’esercito e della guerriglia. Però, ogni volta che ha potuto, Pino Scaccia ci è tornato e si è fatto venire il fiatone a salire i gradini.

Non so se ho invidia per il lavoro che fa Pino Scaccia; forse un po’. Ma ho sicuramente ammirazione per il lavoro extra che in tutti questi anni ha fatto, per il blog che anima, per il mondo che ci racconta, per tutti i nomi che cita di giornalisti, di curiosi, di raccontatori che sono morti, in sostanza, solo perché volevano raccontare e non si accon­tentavano di leggere una velina.

Quindi: a Pino, semplicemente grazie. E ai lettori: avete in mano roba buona.

Enrico Deaglio

Milano, aprile 2005